Fame VS FAME
Mi presento. Anzi no. Sono famosa, richiestissima, trascinatrice, un’icona della moda. Dovreste già conoscermi.
Ecco, già partiamo male. Mi sento a tratti “mitomane” o “megalomane”, sta di fatto che SONO, seppur nemmeno io volessi, all’inizio.
E non è colpa mia, dopo tutto, se sono “TUTTI PAZZI PER GAIA”.
Ma il punto è proprio questo: il successo ti MANGIA IN UN SOLO BOCCONE. Allora perdi la testa.
E se ve lo dico io… che nemmeno esisto, ma sono null’altro che un personaggio virtuale, un susseguirsi di vocali e consonanti create per gioco, per diletto, poi diventate un nome, un’idea che frullava in testa, infine un capitolo e poi un altro, e un altro ancora. Fino a diventare un romanzo: ALTRE CENTO ME.
E subito dopo fenomeno! Perché chi mi ha creata ha pensato bene di darmi un volto, non si è mica accontentata di buttar giù la bozza di una copertina, oltre a un’e mail, e dulcis in fundo… un vero e proprio account su FACEBOOK.
In poco più di un mese 3.000 contatti, decine di articoli di giornale e tre interviste televisive! Ops… mi sa che il mio Dr. Frankestein si è un tantino montato la testa. Oggi siamo intorno ai 12.000 utenti nel mondo internet soltanto.
Cara la mia Stefania Nascimbeni, tuttavia, non ti biasimo! Il successo trascina a sé altro successo e la celebrità altra celebrità.
E’ un po’ come il caro vecchio, e mai più azzeccato, esempio delle ciliegie. O delle Pringles: una tira l’altra.
Proprio di questo vorrei parlarvi in questo primo incontro con voi nella rubrica OCCHI DI GAIA.
Sì sì, ho (anzi Carmen Fiore ha) preso spunto proprio dal cartone animato giapponese Occhi di Gatto, quello delle tre sorelle ladre che sgattaiolavano sui tetti con le tutine aderenti e la fascia colorata legata in vita.
Del resto, come loro, anche io me ne vado sgattaiolando per la rete in cerca del mio “mecenate”, nel mio caso un editore.
Appena il successo arriva e ti bussa alla porta la prima volta resti come quando ti suonano la domenica mattina alle 07.32 spaccate, e mezzo rincoglionito ti trascini giù dal letto con le braccia protese nel vuoto, che ancora non sai bene se sei sveglio o se il film di zombi che hai visto la sera prima era più realistico di quanto pensassi. E’ allora che afferri la cornetta del videocitofono e ti ritrovi l
e classiche due o tre personcine agghindate che ti strillano “Testimoni di Geova”, mentre ti spiattellano a schermo intero la copertina di una Bibbia in pelle nera.
Cioè, ti chiedi “Ma sono venuti a rompere i coglioni proprio a me?”
Ebbene, anche se meno fastidiosamente, con il successo capita proprio lo stesso. Solo che le citofonate, che inizialmente erano solo una cosa sulla quale riderci su, quasi che non ci credevi, cominciano a farsi più assidue e in un lampo ti ritrovi a puntare la sveglia ogni domenica alle 07.00 per esser pronto ad accogliere l’evento della giornata. E ne hai sempre più voglia, non smetteresti mai. A momenti conteresti i giorni fino a quando non arriverà la domenica successiva. Hai fame di quel momento.
Ingordo!
Non a caso il termine FAME, letto in lingua inglese, sta a significare proprio FAMA. In chiave semantica, qui, oggi, il legame tra le due cose è veramente imprescindibile.
La fama ti ubriaca, ti vizia, ti annulla e ha la presunzione di farti sentire importante. Anche se probabilmente lo sei. Ma è cattiva, come una donna bellissima che sai già che presto o tardi ti tradirà con un uomo più bello, più giovane, più ricco.
Ah, e chiaramente ti lascerà col culo per terra, in lacrime e senza una lira, come nella migliore delle tradizioni: il divorzio di Ivana Trump dal maritino Donald insegna.
Tanto da diventare troppo, addirittura.
La voglia di esserci sempre ha superato la necessità di saper fare qualcosa e alla fine si rischia solo di risultare antipatici. In un attimo è “strafare”. Come quando mangi troppo della stessa cosa e poi finisci per odiarla.
La FAMA è così d’altro canto: oggi ti da 100, domani ti toglie 200. Ti toglie sempre più di quel che ti da, perché ormai hai cominciato a vivere in quella sensazione falsata di essere voluta bene da tutti, cercata da tutti, desiderata da tutti.
Come si fosse più appetibili di una torta al cioccolato. Ma così non è.
Almeno il cioccolato rilascia serotonina, il successo a mala pena butta lì una scarica di adrenalina ogni tanto. Poi toglie tutto, in un battito di ciglia.
C’è come un desiderio inespresso di attirare a sé consensi, quasi che nel privato non si avessero le stesse risposte. E mi ci metto nel mezzo, perché no, il bisogno di sentirsi amati è un diritto di tutti.
C’è chi si esprime a gesti, attraverso abbracci, carezze, fiori e regali; chi usa le parole, i versi di un poeta, le note di una canzone; chi invece si rifugia nell’arte, in ogni sua forma, perché è cosa che tanto non è necessario capire, è arte; c’è chi usa il cibo come rifugio o come confine tra sé e il resto del mondo, per paura di non essere compresi e tanto altro, sotto altre forme d’amore e di bisogno d’affetto/i.
La FAMA è uno di questi, perché ti fa “venire fuori” attraverso un fantoccio, un totem, un burattino che hai deciso debba personificare la tua identità.
In merito a questo argomento non posso prescindere dal citar Michael Jackson, che fin da bambino, dalla tenera età di cinque anni credo, ha dovuto fare i conti con una popolazione di fan impazziti, tanto da vedergli addosso uno stuolo di body guard ancora prima di aver scoperto il primo pelo sul petto! Jackson non ha mai avuto modo di vivere un’infanzia serena, in realtà anche per via dei problemi familiari e per colpa del padre, non ha mai potuto fidarsi dell’amicizia di per sé. Forse questo suo bisogno disperato di ricercare la fama al contrario, e quindi una normalità infantile, l’hanno portato a interessarsi dei problemi minorili, di tutto il mondo, forse è anche per questo che ha dato vita a quel luogo incantato che è Neverland: dove poteva esistere un mondo quasi parallelo, fittizio, ma così surreale da prendere il posto del reale stesso. Più concreta, invece, il suo rapporto con il cibo anche qui come per la vita bio, sana, ealthy come dicono gli americani!
Quando hai un nome così, del resto, non è mai semplice perché per le persone non sei veramente tu a metterti in gioco, ma il personaggio che hai creato, o che hanno creato per te. Purtroppo ci si dimentica che come tutti, invece, le debolezze dell’animo umano sono pressoché le stesse.
Spesso è come parlare in terza persona, volendo prendere le distanze da se stesso, così che critiche e dispiaceri ricadano su quell’altro, quello celebre, il fantoccio.
Si desidera d’essere benvoluti da tutti, in ogni caso, e quando si rientra nei panni del “se stesso” in prima persona, il vero, è quasi come se ci si sentisse “colpevoli”, non meritevoli di così tante attenzioni.
L’identità è ancora una volta nascosta, incastrata in una matassa che non sai nemmeno più sciogliere, di cui non riesci più a trovare l’inizio.
Ritorno e concludo così, ancora una volta, all’immagine dello specchio, quella a cui si era rivolto anche Michael Jackson e che tanto mi appartiene “Mi guardo e mi osservo. C’è qualcosa dentro di me, c’è un’immagine che ha pochi limiti e, forse, degli spazi. C’è un volto, una voce in sordina, e la realtà che prende luce a secondo di come mi guardo, che cambia quando cambia la mia posizione vista di fronte. Peccato che dentro, non si possa vedere. Perché è lì che ci sono le cose migliori, io”
(Come Sobjective – la realtà dai suoi punti di vista)